Le notti hanno un odore che non si confonde mai: salsedine, fili elettrici bruciati, polvere di strada. È quello che mi accompagna fino allo studio, quando la città dorme e solo i bar chiudono le ultime serrande.
Alle due meno cinque entro, accendo le luci soffuse e appoggio sul tavolo la tazzina di caffè amaro. Il suono secco della ceramica è la mia sigla personale.
«Buonanotte a chi lavora, a chi veglia, a chi non riesce a dormire.
Siamo nel Labirinto, e io sono Aurora Nera.
Stanotte la porta si apre sul mare.»
Il mare, sì. Poco prima di mezzanotte mi ha chiamato un pescatore di Torre Albana. La sua voce era agitata, come se avesse paura di non essere creduto. Dice di aver visto luci insolite vicino al faro dismesso. Non barche turistiche, non lanterne di festa: lampi regolari, geometrici, come un codice.
«E non è tutto» mi ha detto. «Nelle reti ho trovato questo.»
Una pietra piatta, levigata dall’acqua. Sulla superficie, un segno inciso. Non una croce, non una stella: qualcosa di più piccolo, ma più potente. Una yod, la decima lettera dell’alfabeto ebraico.
«Yod» ripeto ora al microfono, lasciando scivolare la parola. «Un punto, un seme, un inizio.»
In regia, Fefè mugugna: «Per me è solo un graffio di gabbiano.»
Sorrido. È sempre così: lui ironizza, io apro varchi.
La yod è la più piccola delle lettere, ma contiene tutto. È la scintilla dell’universo, il respiro prima della creazione. E allora perché comparire proprio lì, incisa su una pietra riportata dal mare? Il mare porta via, raramente restituisce.
Mando in onda il file che il pescatore mi ha lasciato. Rumore di onde, vento che gira. E poi, più in fondo, una voce. Debole, quasi inghiottita dall’acqua.
“Millenovecentonovantanove… no, mille e novantanove.”
Mi fermo. In studio cala un silenzio che nemmeno le apparecchiature riempiono.
Fefè alza un sopracciglio dietro il vetro. Io bevo l’ultimo sorso di caffè.
È un attimo, ma basta. So già che questa notte il Labirinto non ci lascerà uscire facilmente.