A Roma si sono incontrati i rappresentanti di Italia, Grecia, Spagna e Tunisia per rilanciare – così dicono – la cooperazione culturale tra le due sponde del Mediterraneo.
Un bel titolo. Suggestivo, quasi poetico.
Partenariato Euromediterraneo: suona come un patto tra antiche civiltà, come un’eco proveniente dai porti fenici o dalle biblioteche bruciate. Ma basta avvicinare l’orecchio per accorgersi che, più che un dialogo tra sponde, è un monologo con eco istituzionale.
Perché la verità è che la cultura non dialoga nemmeno tra due quartieri dello stesso comune.
Figuriamoci tra Stati.
Mi sarebbe piaciuto applaudire all’iniziativa. Mi sarebbe piaciuto credere che fosse davvero possibile costruire ponti tra nord e sud del Mediterraneo, tra l’Europa che affoga nella burocrazia e il sud del mondo che cerca ancora spazio per respirare bellezza.
Ma la mia esperienza mi frena.
Anni di progetti, festival, iniziative di territorio mi hanno insegnato che la cultura è molto meno nobile di quanto appaia nei comunicati stampa.
Altro che genio, bellezza, amore.
Dietro il sipario, la scena è un’altra:
acredine tra associazioni, gelosie tra artisti, presunzione tra operatori, autoreferenzialità come cifra stilistica, egoismi mascherati da visione.
E ogni tanto, qualche abbraccio di circostanza sotto il palco. Ma appena cala il sipario, ognuno torna a difendere il proprio orticello, spesso incolto.
Le associazioni culturali, dicevo, non collaborano nemmeno nello stesso comune.
C’è chi fa teatro ma ignora chi fa musica. Chi organizza mostre ma snobba le biblioteche. E nei comuni vicini ci si guarda in cagnesco, come se la creatività fosse un dominio da presidiare, non un campo da coltivare insieme.
E allora, in questo scenario, cosa speriamo di costruire con la Tunisia?
Con la Grecia? Con la Spagna?
Se non siamo capaci di dialogare nemmeno con chi ha la sede a due isolati di distanza, con chi divide con noi il manifesto della rassegna ma non risponde a un messaggio?
Negli anni ho maturato una certezza amara quanto un caffè dimenticato sul fuoco:
la cultura, così com’è gestita oggi, non decollerà mai.
Non finché sarà un’industria drogata dall’aiuto pubblico, incapace di sostenersi, di innovare, di collaborare.
Non finché gli operatori saranno più preoccupati del proprio ruolo che del senso del proprio lavoro.
Serve una rivoluzione silenziosa.
Una cultura che non viva solo di contributi, ma di relazioni vere, di scommesse comuni, di economie circolari. Una cultura che torni ad essere ponte, e non palcoscenico.
Il Mediterraneo è pieno di coste, ma privo di approdi comuni.
Sarà anche per questo che, di partenariato, parliamo solo nei convegni.