Ogni 1° maggio celebriamo il Lavoro. Ma non possiamo farlo senza parlare di quella parola che tutti pronunciano — e pochi praticano davvero: sicurezza.
Sicurezza non è un obbligo da spuntare su un foglio. Non è una clausola da contratto. Non è un fastidio da minimizzare, né un lusso da rimandare quando “le cose andranno meglio”. Sicurezza è un atto di civiltà. È la misura del rispetto per chi lavora. È la distanza — sottile ma decisiva — tra una giornata che finisce con una stretta di mano e una che finisce in ospedale. O peggio.
In Italia, le tragedie sul lavoro si susseguono con una regolarità che non può più essere archiviata come fatalità. Non bastano i minuti di silenzio, non bastano le corone di fiori. Non servono neanche solo nuove leggi, se poi restano nei cassetti o diventano scartoffie da compilare senza convinzione. Serve una cultura della sicurezza. E serve adesso.
Ma come si costruisce davvero?
Anzitutto con formazione vera, non finta. Non corsi improvvisati, non attestati senza contenuti. La sicurezza richiede conoscenza, consapevolezza, esercizio. E aggiornamento continuo. Poi serve partecipazione attiva dei lavoratori: nessuno conosce i rischi quotidiani meglio di chi li affronta. Bisogna ascoltarli, valorizzarli, coinvolgerli. Anche nei piccoli gesti: la segnalazione di un “quasi infortunio” può prevenire una tragedia.
C’è poi la questione dei controlli: servono più frequenti, più efficaci, più mirati. Non per punire, ma per aiutare a migliorare. E servono imprese che non temano i controlli, ma li considerino parte del proprio percorso di crescita. La sicurezza, se ben gestita, non è un costo. È un investimento. E produce valore.
Ma tutto questo non funziona se si lavora precari, isolati, ricattabili. La precarietà è nemica della sicurezza: chi ha un contratto a termine, o lavora per subappalti a catena, è più esposto, più vulnerabile, meno protetto. Più incline ad abbassare la testa quando non dovrebbe.
E poi c’è un altro paradosso: le risorse per la sicurezza ci sono, ma non sempre vengono usate bene. A volte restano inutilizzate, altre volte sono impiegate in corsi inutili, in progetti autoreferenziali, in iniziative poco efficaci. Sprecare soldi sulla sicurezza è peggio che non averli: dà l’illusione di aver fatto qualcosa, quando in realtà non è cambiato nulla.
Non servono solo norme. Serve coscienza. E coraggio. Perché cambiare richiede volontà, responsabilità, e un po’ di onestà intellettuale.
Serve che ogni azienda — grande o piccola — si assuma il compito di costruire ambienti di lavoro giusti, stabili, sani.
Serve che lo Stato garantisca ispezioni, formazione di qualità, uso mirato dei fondi.
Serve che i lavoratori abbiano voce, stabilità, protezione.
Serve, in breve, un patto vero tra tutti.
La sicurezza non è la cornice del lavoro. È la sua base.
Il primo passo. Il presupposto. La condizione minima.
Senza sicurezza, il lavoro non è lavoro: è solo un rischio pagato a ore.